L’occhio è un organo sensoriale composto da tessuti predisposti a funzioni differenti ma il nucleo della visione è composto dai coni e dai bastoncelli, le strutture che convertono il segnale luminoso in un impulso elettrico da trasmettere, attraverso il nervo ottico, al cervello: in questo modo nascono le immagini di quel che vediamo. Perciò, quando questo meccanismo è danneggiato - da una malattia o da una lesione traumatica - le conseguenze possono essere irreversibili. Per la degenerazione maculare legata all’età non esistono attualmente soluzioni efficaci per ripristinare la vista perduta. La novità arriva da un recente articolo pubblicato sulla rivista New England Journal of Medicine che illustra le potenzialità di un microchip sperimentale da impiantare sotto la retina, in maniera tale da sostituire i recettori danneggiati e trasmettere così l’impulso elettrico alle cellule del nervo ottico.
Gli enti regolatori e finanziatori negli Stati Uniti ed Europa stanno promuovendo iniziative ambiziose per favorire lo sviluppo e l’adozione di sistemi avanzati capaci di testare gli effetti di farmaci e altre sostanze chimiche senza ricorrere all’utilizzo di modelli animali. La speranza è che la ricerca biomedica possa diventare al tempo stesso più etica, più sicura e più economica. Ma la sfida è complessa e le esigenze possono variare a seconda delle applicazioni, cosicché alcune voci chiedono di affrettare la “transizione” mentre altre ammoniscono che sarebbe rischioso bruciare le tappe. Gli articoli pubblicati recentemente dalle più influenti testate scientifiche fotografano un dibattito polarizzato ma suggeriscono anche una possibile sintesi.
Un tempo una soluzione in grado di “ridare la vista ai ciechi e tornare a far sentire i sordi” sarebbe stata semplicemente definita un “miracolo” poiché queste menomazioni dei sensi erano considerate insanabili. Ma in questo secolo il progresso scientifico in ambito medico sta facendo balzi da gigante: lo dimostrano i risultati di uno studio clinico in cui la terapia genica, messa a punto per alcune forme di sordità grave, ha permesso a bambini completamente sordi dalla nascita di sentire i suoni del mondo. La terapia sperimentale, ideata per portare all’interno della coclea una copia del gene che codifica per l’otoferlina, aveva già ridato l’udito ad una bambina di 18 mesi (ne avevamo parlato qui), ora sono stati pubblicati su The New England Journal of Medicine i risultati del trattamento di 12 bambini.
Per chi soffre di dipendenza da alcol o da sostanze, il primo periodo di astensione può essere particolarmente duro, portando con sé forti ripercussioni psicologiche. Un approccio innovativo, non farmacologico, basato su un dispositivo indossabile di ultima generazione, ha dimostrato di poter aiutare a gestire lo stress e ridurre il rischio di ricadute, supportando le persone in questo momento così delicato. Lo strumento, al centro di un lavoro pubblicato a inizio ottobre su JAMA Psychiatry, si applica come un semplice cerotto (o “patch”) ma è un vero concentrato di tecnologia: misura i livelli di stress e interviene con stimoli che inducono a regolare la respirazione, contribuendo a stabilizzare l’umore e a mantenere il controllo.
La carenza di organi per i trapianti è una delle più grandi emergenze mediche globali. In questo scenario, gli xenotrapianti – l’uso di organi di animali geneticamente modificati per il trapianto in esseri umani – si sta trasformando da prospettiva teorica a possibilità concreta (con tutte le implicazioni che questo porta con sé). Negli ultimi mesi, due risultati hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica internazionale: il trapianto di un rene di maiale funzionante per oltre sei mesi in un paziente vivente e il primo trapianto di fegato di maiale in un essere umano. Negli Stati Uniti, Paese all’avanguardia in questo ambito, si guarda alle prime sperimentazioni cliniche sugli xenotrapianti, che dovrebbero iniziare nei prossimi mesi.
In medicina, capita spesso che nuovi trattamenti svelino di possedere caratteristiche non previste e inattese: è quello che sta accadendo con i vaccini a mRNA contro SARS-CoV2. Infatti, uno studio, pubblicato su Nature una decina di giorni fa, ha dimostrato che i pazienti oncologici che hanno ricevuto questo tipo di vaccini prima di iniziare un’immunoterapia hanno vissuto significativamente più a lungo rispetto a quelli non vaccinati. Ma, ancor più interessante, è che questo potrebbe essere possibile grazie a un potenziamento della risposta immunitaria, che rende i tumori più suscettibili al trattamento immunoterapico. Una scoperta che apre a nuove interessanti applicazioni in campo oncologico.
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