Un summit negli USA e un numero speciale del CRISPR Journal hanno ospitato una pluralità di voci che chiedono un dibattito allargato nel nome di cosmopolitismo e partecipazione
Respingono il modello della Conferenza di Asilomar, che 50 anni fa ha rappresentato un momento cruciale di riflessione collettiva sulle frontiere della genetica: troppo tecnocentrico. Criticano i tre Summit sull’editing del genoma umano che hanno accompagnato l’avanzata di CRISPR fino al 2023: troppo utilitaristici. Invocano nuovi spazi per le prospettive religiose, multiculturali, extra-scientifiche. Sono le voci riunite dal Global Observatory for Genome Editing, il think tank fondato nel 2020 da Sheila Jasanoff che ad Harvard studia le dinamiche della tecnologia e della scienza con gli strumenti di sociologia, antropologia e diritto. Possono contare su un grant della Templeton Foundation da 2 milioni di dollari, ma cosa propongono?
L’idea dell’Osservatorio globale è nata sulle pagine di Nature nel 2018, da un articolo della stessa Jasanoff e dell’altro fondatore, il bioeticista Benjamin Hurlbut. L’iniziativa, ispirata alle reti internazionali di studiosi e organizzazioni impegnati per il clima e per i diritti umani, ha subito suscitato interesse e anche qualche perplessità. Cinque anni dopo la partenza effettiva dobbiamo ammettere che le ambizioni iniziali sono lontane da una piena realizzazione. Il think tank è comunque attivo nel promuovere occasioni di confronto interdisciplinare, tra cui l’ultimo summit che si è tenuto dal 21 al 23 maggio a Cambridge negli Stati Uniti e una collezione di 18 articoli pubblicati contemporaneamente sul CRISPR Journal.
Solitamente il dibattito parte dalla scienza per arrivare all’etica. Si comincia tracciando una mappa di cosa CRISPR può o non può fare concretamente, quali sono i rischi e i benefici delle possibili applicazioni, quali gli ostacoli tecnici e scientifici ancora da superare. Poi la discussione si muove verso le questioni bioetiche: è lecito modificare il genoma in modo ereditabile? Dove tracciare lo spartiacque tra normale e patologico? Come mettere il potenziale della tecnologia al servizio del maggior numero possibile di persone? Ebbene, secondo quanto dichiarato nell’editoriale e argomentato nello statement, l’osservatorio intende ribaltare la prospettiva, mettendo da subito al centro “le questioni sul significato della vita umana (e non umana), chiedendosi come questi significati possano essere alterati dalla tecnologia dell’editing genomico e perché dovrebbe importarci”. Le direttrici dell’impresa sono quattro: mettere da parte l’approccio “science-and-technology first”, espandere il ventaglio delle domande da porsi, riconsiderare chi ha da guadagnare e chi da perdere, re-immaginare i limiti della ricerca.
Un’impostazione filosofica e programmatica che, per sua stessa natura, non prevede la possibilità di raggiungere un consenso generale né definitivo. Non mancano, comunque, gli interventi più concreti. Cominciamo segnalando l’analisi a freddo del caso delle bambine CRISPR nate in Cina, firmata da Jane Qiu sul CRISPR Journal. Secondo la giornalista scientifica cinese questo esperimento - scientificamente mal eseguito ed eticamente condannabile - non è un “caso Frankenstein” isolato e nemmeno un fenomeno interamente riconducibile alle specificità del contesto cinese, ma un prodotto delle dinamiche scientifiche internazionali. Degno di nota anche l’articolo sull’intreccio tra bioetica e politiche editoriali delle riviste scientifiche alle prese con i filoni di ricerca più controversi (dagli esperimenti ad alto rischio sui virus patogeni all’utilizzo di organoidi neurali assemblati con cellule umane), firmato dall’ex direttore di Nature Philip Campbell. Un altro articolo, intitolato “Medicine Starlink in sistemi sanitari del Giurassico”, racconta come le terapie avanzate (costosissime ma potenzialmente risolutive con un’unica somministrazione) faticano a farsi strada tra regole pensate per le malattie croniche. Decisamente attuale, poi, è l’intervista doppia a Fyodor Urnov e Kiran Musunuru, due pionieri dell’editing genomico impegnati nella difficile sfida per rendere i trattamenti per le malattie rare e ultra-rare più facilmente realizzabili e disponibili, nonostante gli ostacoli regolatori e la scarsa profittabilità (Osservatorio Terapie Avanzate ne aveva parlato anche qui). Entrambi sono tra gli artefici dell’ultimo exploit nel campo della medicina personalizzata: un intervento di base-editing su misura sviluppato in soli sei mesi di tempo per un neonato affetto da un grave disturbo metabolico.
Il contributo di John S. Dryzek, infine, rappresenta l’occasione per fare il punto sullo stato dell’arte delle iniziative di democrazia partecipativa. Nel 2020 l’autore era comparso come primo firmatario di una proposta pubblicata su Science: la costituzione di un’assemblea deliberativa globale sull’editing genomico. I partecipanti, scelti in modo rappresentativo, avrebbero dovuto esprimersi sulle regole da dare alla ricerca (cosa vietare, cosa consentire, cosa finanziare). L’idea però è rimasta sulla carta, probabilmente perché coinvolgere persone di ogni parte del mondo per un tempo sufficiente a dibattere tutte le possibili applicazioni di una tecnica trasversale alle scienze della vita (dalla medicina all’agricoltura) è un’impresa difficilmente realizzabile. In effetti c’è un solo caso simile, l’Assemblea Globale sul Clima che si è tenuta online nel 2021. Iniziative più circoscritte sull’editing genomico, comunque, si sono svolte in Australia, Brasile, Cina e Gran Bretagna. Quest’ultima, in particolare, merita di essere approfondita: si tratta della UK Citizens’ Jury on Human Genome Editing, ha avuto luogo nel 2023 e ha coinvolto solo persone con malattie genetiche e loro familiari. Questa giuria “popolare” ha risposto di sì alla domanda che gli era stata posta (“il governo britannico dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di cambiare la legge per consentire l'editing intenzionale del genoma di embrioni umani per gravi condizioni genetiche?”) e l’esperienza è stata raccontata in un docufilm.