L’immunoterapia è oggi considerata l’ultima frontiera della lotta al cancro e si basa sul concetto rivoluzionario di combattere i tumori come se fossero un’infezione, ovvero “armando” il sistema immunitario del paziente in maniera tale da riconoscere le cellule tumorali e annientarle.
Le cellule tumorali sono cellule che hanno una proliferazione incontrollata e vengono normalmente riconosciute come estranee e dannose dal sistema immunitario, il quale scatena un attacco da parte dei linfociti T, considerati i “soldati di assalto”. Questa difesa dell’organismo non è però sempre efficace perché le cellule tumorali riescono ad attuare tutta una serie di strategie di fuga. Una di queste trae vantaggio dal meccanismo di autoregolazione del sistema immunitario basato su una serie di proteine che agiscono come “acceleratori” o “freni” sulle cellule T.
Una delle strategie di immunoterapia utilizzate oggi, chiamata “inibizione dei checkpoint immunologici”, si basa sull’impiego di anticorpi per disinnescare i freni del sistema immunitario e aumentare così la capacità dei linfociti di fronteggiare i tumori. L’idea, nata negli anni ’90 e arrivata alla prima applicazione terapeutica nel 2011, si è meritata l’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina nel 2018.
Un’altra strategia, di ultimissima generazione e denominata CAR-T (Chimeric Antigen Receptor T cell therapies), si basa invece sull’ingegnerizzazione genetica dei linfociti T in maniera tale da potenziarli per combattere i tumori. Nello specifico, le cellule T vengono prelevate dal sangue del paziente, modificate geneticamente in modo tale da esprimere sulla loro superficie il recettore CAR capace di aumentare la risposta immunitaria, e reinfuse nel paziente stesso. A differenza della strategia basata sugli inibitori dei checkpoint, le CAR-T rappresentano la medicina personalizzata nel campo dei tumori. Ogni dose viene sviluppata e prodotta per un singolo paziente partendo dalle sue stesse cellule immunitarie. Le prime approvazione per l’applicazione delle CAR-T nei pazienti con alcuni tumori del sangue (leucemia linfoblastica nel bambino e linfoma nell’adulto) sono arrivate nel 2017 negli Stati Uniti e nel 2018 in Europa.
Se il microambiente tumorale fosse paragonabile alla giungla più intricata, le terapie a base di cellule CAR-T sarebbero la barca che risale le anse del fiume inoltrandosi sempre di più nella natura selvaggia e ostile. Un’immagine che ricorda bene che il viaggio delle CAR-T oltre le barriere fisiche di un tumore, soprattutto se solido, non è una passeggiata e più volte si è rivelato infruttuoso: ecco perché i ricercatori di tutto il mondo stanno cercando nuovi “punti di riferimento” per raggiungere il traguardo. Ed è su queste basi che risulta interessante uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet da un gruppo di biologi e biotecnologi dell’Università di Pechino che hanno puntato l’attenzione a una speciale proteina e messo a punto una CAR-T diretta contro i tumori dello stomaco e della giunzione gastroesofagea.
Fino a non molto tempo fa ci si poteva sottoporre ai trattamenti a base di cellule CAR-T solo in quattro Regioni d’Italia (Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna e Veneto), tanto che la sproporzione nella distribuzione dei centri è stata - e continua ad essere - un punto critico nel dibattito sulle opportunità di accesso. a questi innovativi trattamenti. Ma negli ultimi anni tutte le Regioni si stanno adoperando per stare al passo con la medicina all’avanguardia e per attivare centri somministratori di terapie CAR-T. In Veneto, l’ultimo in ordine di tempo a seguire il percorso di accreditamento è stato il polo ospedaliero di Treviso, come racconta la dottoressa Marta Stanzani, Direttore del Programma Trapianti di Cellule Staminali Ematopoietiche e Terapie Cellulari presso l’Ospedale Ca’ Foncello - ULSS2 Marca Trevigiana.
Il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina 2025 è stato assegnato a Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi per le scoperte fondamentali sul meccanismo della tolleranza immunitaria periferica, ossia su come l'organismo impedisca al sistema immunitario di attaccare i propri tessuti. Un processo che i tre ricercatori hanno ricostruito, tra gli anni Novanta e Duemila, lavorando su parti diverse ma complementari. Come fa il sistema immunitario a capire chi è un nemico da eliminare e chi no? E come mai a volte questo meccanismo non funziona? Queste sono le domande a cui risponde - parzialmente - il Nobel di quest’anno, una scoperta che ha permesso di avviare ricerche innovative nel campo delle malattie autoimmuni, dell’oncologia e dei trapianti. I protagonisti? I linfociti T, in particolare le cellule T-regolatrici (T-reg).
Tra i tumori rari il glioblastoma è uno dei più aggressivi e difficile da trattare. Le cellule tumorali si moltiplicano rapidamente e invadono con rapidità i tessuti vicini; i protocolli radioterapici e chemioterapici ad oggi impiegati per contrastarne la diffusione non riescono a contenere la crescita della massa, mostrando un’efficacia limitata nel tempo. Tuttavia, le sue stesse caratteristiche ne hanno fatto un bersaglio ideale per una strategia terapeutica che sfrutti i linfociti infiltranti il tumore (TIL), studiati e sviluppati da Steven Rosenberg più di quarant’anni fa. Ad aver ipotizzato la possibilità di usare i TIL contro il glioblastoma è stata la prof.ssa Serena Pellegatta, Responsabile della Struttura di Immunoterapia dei Tumori Cerebrali presso l’IRCCS Istituto Besta di Milano, e lo studio che ha guidato è stato pubblicato su Nature Communications.
Su quali elementi cellulari, tra quelli che compongono il sistema immunitario, è possibile far esprimere il recettore sintetico CAR? Con il dilagante successo delle terapie CAR-T la questione relativa all’ingegnerizzazione di tipologie di cellule diverse dai linfociti T sta trovando sempre più spazio, non solo nei laboratori di ricerca ma anche nelle sale dei congressi scientifici dove continuano ad essere presentati (e discussi) i risultati relativi alle CAR-T. Viste le tortuosità produttive, i costi, le tempistiche di lavorazione e, ultime ma non per importanza, le categorie di malati da trattare, le cellule Natural Killer (NK) rappresentano una sfida da accettare, soprattutto nell’ottica di un futuro utilizzo di questi trattamenti contro malattie autoimmuni gravi fra cui il lupus eritematoso sistemico (LES) e la sclerodermia.
Spesso i risultati preliminari degli studi clinici in cui si confrontano nuovi trattamenti per una malattia, o un tumore, con lo standard terapeutico giungono prima della chiusura ufficiale del protocollo, che comprende le più lunghe ma non meno importanti fasi di monitoraggio. Pertanto, i valori definitivi (ottenuti quando tutti i pazienti hanno terminato il follow-up) restituiscono la visione completa (soprattutto sulla sicurezza) e, qualora positivi, esercitano un peso scientifico non indifferente, configurando un possibile cambiamento dello schema terapeutico. È quello che potrebbe accadere nel caso del neuroblastoma recidivante o refrattario contro cui si sono dimostrate efficaci le terapie a base di cellule CAR-T GD2, sviluppate e sperimentate all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (OPBG) di Roma. A confermarlo è uno studio pubblicato a fine agosto sulla rivista Nature Medicine.
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