Strutturalmente meno complessi di un organo, ma decisamente più rappresentativi di un ammasso di cellule disposte su una piastra da laboratorio. Gli organoidi sono definibili come aggregati di cellule che assumono spontaneamente una precisa conformazione tridimensionale, finendo con l’assomigliare a organi in miniatura. La capacità delle cellule che li compongono di organizzarsi e distribuirsi ordinatamente, ripercorrendo i passaggi più importanti del processo di organogenesi, li ha resi dei modelli cellulari in 3D impareggiabili per conseguire informazioni nuove sullo sviluppo dei vari organi e sulle interazioni tra i tessuti che li formano.
Grazie agli organoidi lo studio della biologia dello sviluppo è cambiata radicalmente dal momento che essi hanno permesso ai ricercatori di guardare ai processi di embriogenesi di organi come il cervello, il fegato o il pancreas in modo rivoluzionario. Pur essendo strutture piccole - non superano generalmente i pochi centimetri - gli organoidi possono essere formati da cellule prelevate direttamente dai pazienti e, pertanto, si configurano come elementi indispensabili per capire che cosa accade a un organo quando viene aggredito da una malattia come il cancro. Inoltre, i ricercatori stanno pensando di poterli sfruttare per valutare l’impatto in termini di tossicità di un nuovo farmaco sulla fisiologia dei vari organi e, pertanto, auspicano che gli organoidi diventano presto un anello utile nella catena di sviluppo di terapie mirate contro il cancro e molte altre patologie croniche o autoimmuni.
Lo studio degli organoidi è solo all’inizio e la ricerca biomedica ha già fatto molti progressi: sarà fondamentale comprendere i meccanismi per favorire una buona innervazione e vascolarizzazione di questi mini-organi, al fine di rendere sempre più realistiche le loro condizioni di sviluppo. Inoltre, occorre che il flusso dei fluidi e dell’ossigeno e le stimolazioni meccaniche a cui sono sottoposti ricordino quelle a cui sono soggetti gli organi originali. Tuttavia, il bagaglio nozionale desumibile da questi strabilianti modelli cellulari tridimensionali è molto maggiore - e molto più accurato - di quello dato dalle classiche colture in piastra. Per questo, non si può escludere che un domani gli organoidi possano svolgere un ruolo importante nel trapianto di organi interi.
Metodologie tipiche dell’elettronica, dell’informatica, della meccanica e della chimica per progettare soluzioni innovative al servizio delle scienze biomediche: la bioingegneria raccoglie al suo interno un mondo all'avanguardia che comprende sinapsi artificiali, organ-on-a-chip, stampa 3D e inchiostri biologici e molto altro ancora. È una disciplina giovane e opera in diversi ambiti per migliorare la conoscenza dei sistemi biologici e per sviluppare tecnologie e dispositivi per diagnosi, terapia, riabilitazione.
I confini della ricerca biomedica sono in fase di ridefinizione grazie a un innovativo modello di ricerca, che da qualche anno fa parlare di sé: gli organoidi. Queste strutture tridimensionali, create in laboratorio a partire da cellule staminali, rappresentano la complessità e le funzioni dei tessuti e degli organi umani, superando alcuni limiti delle più classiche colture in due dimensioni e dei modelli animali. Una review, pubblicata su Nature Medicine lo scorso febbraio, illustra i progressi tecnologici che stanno spingendo la ricerca sugli organoidi e mette in evidenza le promettenti applicazioni cliniche e traslazionali, specialmente quelli derivati da cellule staminali adulte, in quanto sono stati studiati più ampiamente e sono quindi più vicini alla clinica rispetto a quelli derivati da altri tipi di tessuto.
Negli ultimi tempi si sentono spesso nominare microbiota e microbioma: ma che differenza c’è tra i due termini? Il primo indica l’insieme dei microbi che convivono con il nostro organismo, mentre il secondo allude all’insieme dei genomi di tali organismi. Saperlo è utile perché le analisi genetiche sul microbioma stanno ottenendo rilievo proprio per il suo diretto coinvolgimento nella patogenesi di alcune malattie e nelle risposte ai farmaci. Un esempio di quest’ultimo aspetto è riportato in un articolo pubblicato il mese scorso sulla rivista Nature Biomedical Engineering: un team italiano, dell’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e del Politecnico di Milano, ha messo a punto un innovativo “organ-on-chip” per studiare le risposte dell’immunoterapia nel melanoma.
Alcuni animali hanno capacità straordinarie di rigenerazione: le salamandre possono far ricrescere interi arti e i vermi piatti riescono a rigenerare un corpo completo da piccoli frammenti. Noi esseri umani non possediamo questi “superpoteri” ma, oltre alla straordinaria capacità rigenerativa del fegato, il nostro organismo è dotato di un sistema di riparazione naturale capace di guarire piccole lesioni e fratture. Quando ci feriamo, il sangue forma un coagulo che attiva un processo rigenerativo, riparando il tessuto lesionato. I ricercatori dell'Università di Nottingham (Gran Bretagna) hanno creato una versione migliorata di questo meccanismo naturale per guarire piccole lesioni ossee. Combinando il sangue dei pazienti con molecole sintetiche, hanno sviluppato un gel autoassemblante in grado di potenziare le capacità rigenerative naturali: i risultati sono stati pubblicati a novembre su Advanced Materials.
Il film The Island del 2005 racconta la drammatica storia di cloni umani creati per testare farmaci, sostituire organi e curare le malattie dei ricchi. Nella realtà, questo non sarebbe possibile per ovvie questioni etiche, ma l’idea di avere un “doppio biologico” su cui sperimentare terapie non appartiene solo alla fantascienza. I ricercatori dell’Istituto Candiolo IRCCS di Torino hanno realizzato una nuova biobanca di modelli tumorali, chiamata XENTURION. È la più grande al mondo, composta da 128 mini-tumori metastatici del colon-retto, ottenuti da campioni di tessuto di pazienti oncologici. Questi tumori “avatar” replicano il profilo molecolare del tumore originale e simulano la sua risposta ai farmaci, migliorando l'efficacia dei trattamenti personalizzati. Lo studio, a firma italiana, è stato pubblicato a fine agosto su Nature Communications.
a cura di Anna Meldolesi
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