Una complicanza che può insorgere nei pazienti sottoposti a trapianto che assumono immunosoppressori. Ne abbiamo parlato con il prof. Benedetto Bruno (Torino)
Chi si sottopone a un trapianto di organo deve assumere farmaci immunosoppressori per tutta la vita. Questo perché, se la persona li sospendesse, l’organo trapiantato andrebbe incontro a rigetto, cioè verrebbe riconosciuto come estraneo e attaccato dal sistema immunitario. Purtroppo, l’inattivazione prolungata del sistema immunitario può portare, seppur in una percentuale bassa di casi, alla riattivazione di vari virus, causa di infezioni post trapianto. Tra questi c’è anche quello dell’Epstein Barr (EBV) – il virus noto per causare la mononucleosi – che può anche contribuire allo sviluppo di malattie più gravi quali i disordini linfoproliferativi, i linfomi. Benedetto Bruno - Professore Ordinario di Ematologia e Direttore della Struttura Complessa di Ematologia Universitaria presso l’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino - ci ha fatto una panoramica sui disordini linfoproliferativi post trapianto e sulle terapie attualmente disponibili, inclusa la terapia cellulare recentemente approvata e rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
COSA SONO I PTLD EBV-CORRELATI?
I disordini linfoproliferativi post trapianto (Post Transplant Lymphoproliferative Disorders, PTLD) rappresentano una complicanza che può manifestarsi in seguito a un trapianto di organo solido – come rene, polmone, cuore e fegato – o di midollo osseo - con una maggior frequenza nel caso dei trapianti di organo solido. A seguito del miglioramento della sopravvivenza post trapianto e all’incremento del numero di trapianti, sono aumentati anche i casi di PTLD. Parlando di numeri, l’incidenza complessiva di PTLD nei pazienti trapiantati è di circa 1% a 10 anni dall’intervento e l’80% dei casi insorge entro il primo anno dopo il trapianto.
All’interno di questa categoria di disordini sono racchiuse diverse tipologie di malattia, molto eterogenee tra loro sia dal punto di vista clinico che istopatologico. Vengono classificati in quattro gruppi principali: PTLD non distruttivi, PTLD polimorfo, PTLD monomorfo e linfoma di Hodgkin classico. Nella maggioranza dei casi – dal 67% all’80% - la causa è una proliferazione di linfociti B indotta dall’infezione di EBV, un virus che appartiene alla famiglia degli herpes virus. Nella forma comune, l’infezione primaria è silente o scarsamente sintomatica, ma in soggetti immunocompromessi – come nel caso di trapianto o nelle persone con una diagnosi di AIDS – è il principale fattore per lo sviluppo di disordini linfoproliferativi dei linfociti B.
L’IMMUNOSOPPRESSIONE: UN RISCHIO FONDAMENTALE
Il principale fattore di rischio per lo sviluppo dei PTLD è il grado di immunosoppressione dei linfociti T, che è inevitabile nel post trapianto. Cosa succede quindi? “Una immunosoppressione prolungata può portare ad una riattivazione di vari virus, tra cui anche quello dell’Epstein Barr che nella manifestazione più grave si caratterizza proprio nella comparsa di linfomi”, spiega il professor Benedetto Bruno. “Abbiamo la possibilità di monitorare l'attivazione di questo virus dopo il trapianto semplicemente con dei prelievi del sangue, dove andiamo a valutare la presenza del DNA virale e a vedere se c'è un'attivazione o meno. È importante sottolineare che non sempre la riattivazione virale corrisponde a una patologia linfoproliferativa, ma a volte succede”.
I sintomi sono quelli tipici delle patologie oncoematologiche e includono febbre, calo di peso, sudorazioni notturne, linfonodi ingrossati. Questa condizione può essere tollerata per poche settimane o per mesi, a seconda delle condizioni generali del paziente, che poi si rivolge al medico e, in seguito ai necessari accertamenti, conferma la diagnosi. “Con gli esami radiologici, di laboratorio e la palpazione di alcuni linfonodi superficiali si può avere una prima idea della situazione, ma poi è necessario fare una biopsia. Questo è fondamentale perché la diagnosi di un linfoma post trapianto è sempre istologica: il sospetto del medico deve essere confermato dall'anatomopatologo, che fornisce la descrizione delle cellule degenerate in senso linfoproliferativo e ci permette di classificare il PTLD”, aggiunge Bruno.
COME TRATTARE UN PTLD?
Come per tutte le manifestazioni tumorali, anche i PTLD possono essere più o meno aggressivi ma la terapia segue dei passaggi codificati. “La prima cosa che dobbiamo fare in questi pazienti è ridurre l’immunosoppressione per riattivare il sistema immunitario, di cui abbiamo condizionato l’attività per evitare il rigetto dell’organo trapiantato”, continua il professore. “Alcuni linfomi, soprattutto quelli che non sono particolarmente aggressivi, possono essere controllati, se non addirittura eradicati, proprio con la riduzione dell'immunosoppressione. A seconda del farmaco utilizzato, si può ridurre fino al 50% ma non sospendere completamente, come nel caso della ciclosporina; mentre ci sono altri farmaci, come l'acido micofenolico, che si possono sospendere del tutto. In poche parole, la riduzione o la sospensione del trattamento è la terapia di prima linea in questi casi, e fortunatamente la risposta c’è in una buona percentuale di casi, ma è fondamentale non causare il rigetto. Questo approccio viene quindi portato avanti grazie al lavoro di équipe: quando c’è qualche campanello d’allarme per un linfoma post trapianto, il nostro gruppo di ematologi viene contattato per prendere in carico il paziente, e siamo sempre affiancati dal trapiantologo”.
Non sempre questa sospensione riesce a eradicare il linfoma: in questo caso si passa alla seconda linea, che dipende dalle caratteristiche delle cellule. “Spesso le cellule di linfoma Epstein-Barr correlato esprimono un antigene che si chiama CD20, cioè esprimono una proteina specifica sulla loro membrana che può essere aggredibile con un anticorpo monoclonale, nello specifico il rituximab. Il trattamento può essere somministrato in regime di day-hospital e può portare alla regressione della malattia”, commenta Benedetto Bruno. “Purtroppo, non sempre le cose vanno così bene. Anche in seguito alla riduzione dell'immunosoppressione e alla somministrazione dell'anticorpo monoclonale, ci può essere ancora evidenza di malattia, soprattutto nelle forme più aggressive”.
LA TERAPIA CELLULARE: UN’OPZIONE PER I CASI PIÙ GRAVI
Le opzioni a questo punto sono due. Se il paziente risulta idoneo - dopo un’accurata valutazione delle sue condizioni generali - si procede con la chemioterapia standard che viene usata nel caso di linfomi. Nel caso in cui questo approccio non sia perseguibile, è possibile ricorrere alla terapia cellulare tabelecleucel (nome commerciale Ebvallo), indicata proprio per i casi di malattia linfoproliferativa post-trapianto positiva al virus di Epstein-Barr recidivante o refrattaria e approvata in Europa dal 2022. Pochi mesi fa, a dicembre 2024, l’Agenzia Italiana del Farmaco ne ha approvato la rimborsabilità.
“Questa terapia è un’innovazione molto importante per quanto riguarda il trattamento di queste forme di PTLD”, chiarisce il prof. Bruno. “Si tratta di una terapia di precisione, che agisce contro le cellule infette: infatti, i linfociti T vengono istruiti ad aggredire le cellule infettate dal virus dell’Epstein Barr, che vengono riconosciute dalla presenza di particolari epitopi caratteristici del virus. Questo processo di istruzione genetica avviene in laboratorio, ma c’è un altro fondamentale parametro da tenere in considerazione: la terapia cellulare deve essere – in parte - compatibile dal punto di vista immunologico con il paziente che la riceve per evitare reazioni avverse gravi. Una particolarità che ha questa terapia è che i linfociti T non sono né del donatore di organo né del paziente ricevente, ma di una terza persona, rendendoli quindi disponibili all’uso (off the shelf). Quello che facciamo è identificare le caratteristiche immunologiche di paziente e donatore e poi queste informazioni vengono utilizzate per identificare quali linfociti rispondono alle caratteristiche di istocompatibilità. Essendo i linfociti T piuttosto aggressivi, ma nello stesso tempo anche molto precisi, vanno a colpire solo le masse di linfoma e dovrebbero portare all'eradicazione della malattia. La somministrazione è semplice: i linfociti T sono contenuti in piccole fiale che vengono scongelate e successivamente somministrate come infusione venosa rapida. Ogni ciclo è composto da 3 infusioni venose ripetute a distanza settimanale. Si può arrivare fino a 3 cicli di trattamento (9 infusioni) per ridurre la massa e, infine, eradicarla”.
Il primo importante studio clinico con questa innovativa terapia cellulare per i PTLD è stato condotto tra il 2018 e 2021 e ha dato dei risultati molto solidi: una risposta completa in più della metà dei pazienti trattati. “All’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino abbiamo iniziato da poco a somministrare questa terapia – conclude Bruno – e finora i risultati sono stati ottimi: abbiamo trattato tre pazienti tra cui un paziente con localizzazioni cerebrali che ora non hanno evidenza di malattia, né dal punto di vista radiologico né sintomatico”.